In questo breve testo dedicato all’opera di Luca Vitone parleremo di specchi, di architettura, di polvere, e di altre – poche – cose. Ma andiamo per ordine, è stato Luca stesso a darmi lo spunto per iniziare, quando qualche giorno fa, parlando dello specchio in Michelangelo Pistoletto, mi ha fatto notare come non sia molto diverso dal famoso 4’33’’ di John Cage.
Lo specchio è passivo, ascolta il mondo, gli fa spazio, lo accoglie. Lo specchio si nutre di mondo, e mentre lo fa aumenta la propria lucidità. Così come nel suono passivo di quei pochi minuti di Cage, quello che abbiamo è un’oasi per il mondo, che si scopre nuovo. Il mio testo potrebbe finire qui; sostituite alla parola specchio la ricerca di Luca, e ho detto più di quanto potessi dire.
Dal primo incontro che ricordo con la sua opera, molti anni prima che lo conoscessi di persona, da quelle planimetrie a grandezza naturale imposte al suolo che ricalcano, non ho smesso di pensare al suo lavoro come ad una collezione di esercizi pensati per intensificare la consapevolezza del nostro stare al mondo. Esercizi che alla fine vanno a consolidarsi in un metodo, per Luca stesso, e per il suo pubblico.
Da quel giorno ne sono passati tanti altri, e quei gesti non hanno smesso di caricare a molla le cose, e il loro senso. Una molla per funzionare deve fare come due specchi messi l’uno di fronte all’altro: deve moltiplicare, deve fare tanti giri su se stessa, tornare sui valori per consolidarli, fissarli, e da li ripartire. In tutti questi anni la sua attenzione è sempre stata rivolta al soggetto umano in senso antropologico e sociale, e questo specchio, mai ossidato, ha operato come uno scandaglio dei ricordi, delle trame e delle storie che vanno a costruire il nostro sguardo. L’arte visiva è fatta di sguardi, e qui, e bene precisarlo, al posto di uno sguardo stabile e statico abbiamo il riflesso fugace di uno specchio, che non impone al mondo ciò che al mondo non c’è, ma gli restituisce la sua stessa immagine, caricata di senso, e di responsabilità. Uno specchio cattura le cose con aderenza millimetrica, con una mappatura epidermica, ma è consapevole che ciò che ha sottomano, poi, sfugge.
Le cose non si danno ad uno sguardo permanente, ma solo a chi abbia voglia di seguirne le tracce e le suggestioni. Il mondo non è un oggetto finito, ma una pianta che si abbevera, non è recintabile perchè è processo in divenire, un fiume che diventa cascata quando meno ce lo si aspetta.
Non c’è Nulla da dire, solo da essere.
Come con Piero Manzoni, padre della frase qui sopra, scritta da Luca su di una bandiera nera, anche qui siamo nel mezzo di una dialettica tra universale e ideale, tra corpo e concetto. Il concetto non vive senza corpo, senza esperienza, senza condivisione.
La cultura esiste solo se materiale.
Esistono diverse vie per vivere ed ascoltare la cultura materiale, la prima, la più abusata, è quella che chiamerei investigativa, che guarda il mondo come un rebus da risolvere, e che, conseguentemente, inquadra le cose del mondo alla ricerca di indizi e prove. Qui invece, lungo la strada tracciata da Luca, le cose vengono lette diversamente: la verità non ha bisogno di prove, bastano specchi. Specchi, che come si auspicava Cocteau, siano capaci di essere riflessivi, e non soltanto riflettenti.
Se la cultura materiale viene prima di ogni altro tipo di sapere, non ci resta che annusare il mondo, ed assaggiare, esplorare, vagabondare, per immergersi nelle cose. Penso all’attenzione al cibo, e all’abbondante ricorso che Luca ha fatto e continua a fare al suono, e alla musica, in un’autentica Operazione di Gusto. Si tratta di estetica, che per definizione coinvolge i sensi, ma più e prima ancora, di gusto. Il suono e il cibo sono materiali semplici, immediati, che permettono, anzi, impongono, un rapporto diretto con le cose. Colpendo i nostri sensi ci coinvolgono senza bisogno di mediazione intellettuale, possiamo parteciparne senza ricorrere ad un interprete, o a una guida che ci dica come dobbiamo comportarci.
La forza del discorso che Luca ha iniziato tanti anni fa, inseguendo i legami tra cibo e identità, trova paradossale rafforzamento nella forma distorta che ha preso, molto lontano dal suo agire, la dove oggi tutti, allenatori di calcio e cantanti attempati, si sono trasformati in produttori di olio, di vino, e dei frutti ancestrali della terra. Il cibo appare sempre più come il carburante identitario del nostro corpo, e da lì della nostra presenza nel mondo. Se quello che mangio mi determina, allora io stesso posso determinarmi producendo ciò che mangio, andando al principio della questione. L’emancipazione dalle catene produttive sembra condurre alla vera autenticità, vicino vicino alle radici dell’essere. Laddove questa autentica fame di sensatezza può suonare come un’inutile digressione, risulta invece un’efficace dimostrazione della forza e dell’attualità del lavoro di Luca. Se siamo il risultato della somma di diverse culture, azioni, ed errori, non ha senso tentare di ri-costruirci come se fossimo il risultato di un calcolo algebrico, ma, piuttosto, è meglio cercare gli strumenti per coglierne i sapori. Quella che qui chiamo Operazione di Gusto, è doppiamente efficace. In primo luogo, ci raggiunge su un terreno in cui non è possible avere difese, su cui non si può non prendere posizione, e così facendo ci coinvolge immediatamente. In secondo luogo, tramite il gusto, l’artista chiama in causa la coscienza della nostra posizione, nella scala sociale, nello status, e nella geografia; non ci è permesso sottrarci, o mostrarci per qualcuno o qualcosa che non siamo. Chiamando in causa il piacere, il nostro gusto, Luca pone al centro della questione quel nodo indistricabile di innumerevoli scelte che ci fa diventare cosa siamo, che definisce noi e la nostra storia, che formula la nostra posizione nel mondo.
Chiamando in causa il gusto, Luca costruisce un incontro tra mondi.
Lo fa con il suono, con la cucina, e con la sua non pittura. I suoi monocromi sono mappe astratte, che si potrebbero leggere come si fa coi fondi di caffè, fatti di tracce fuse assieme che, come noi stessi, solo se visti da una certa distanza illudono di essere una cosa unica. La qualità cristallina della nostra identità è un miraggio, e l’illusione dipende solamente dal grado di approssimazione del nostro sguardo. Con i loro residui di polveri di combustione di rifiuti, o di polveri nobili come lo zafferano, quelli che Luca chiama monocromi sono oggetti spuri, eterogenei, frutto come sono di un sommatoria di incidenti. Colorare lasciando che siano gli agenti atmosferici, il vino o le fiamme a dirigere il corso delle cose, significa ottenere il ritratto di un luogo dettato dal protagonista stesso. È l’espressione di un carattere, l’essenza di un luogo, che come nella creazione di un profumo, o come nella medicina omeopatica, emerge per sintesi, per sublimazione della materia. Il risultato non è un oggetto puro, perfetto, come vorrebbe la tradizione modernista che ha coniato il monocromo, ma una materia mobile, che vuole vivere, esserci, e brulicare.
Il movimento è tutto il fine è nulla
Anche questo frase l’ho letta su una bandiera nera, appesa vicino a quella che ho citato molte righe fa. Le bandiere, lo sappiamo, sono i vessilli delle nazioni, celebrano parti di territorio il cui valore è dato da segni e significati contenuti in un confine.
La bandiera di Luca è la bandiera di una nazione che non ha confini, che non crede nei confini, li rispetta, ma non ci crede. Come uno pesce senza branchie che non può smettere di nuotare per bere ossigeno, l’abitante di questa nazione non sa cosa vuol dire fermarsi. Mi piace pensare che la bandiere nere, che spesso Luca ha usato per mappare luoghi anarchici e libertari, finiscano per indicare stazioni di servizio a disposizione dei maratoneti irrequieti che abitano questa nazione. Il tempo non si misura, si determina con i propri spostamenti. Questo è l’assioma che mettono in pratica tutti i nomadi, che nelle loro traiettorie fondono spazio e tempo, centimetri ed esperienza. Esperienza, certo, perchè camminare non è esercizio solipsistico, ma propedeutica all’incontro, è calzare scarpe altrui per conoscere meglio la nostra unica, grande, Wide city.
Esiste una compagnia irregolare di camminatori, che penso abbia fatto e farà compagnia a Luca, dal suo viaggio in Iran da adolescente, fino al quello che abbiamo condiviso a Rugen, e ben oltre. Una compagnia numerosa, che tra gli altri comprende Celati e Walser, Jean Paul e Hamish Fulton, così come il non saper abitare di Rilke, oltre a Diogene e la sua lanterna. Prima, e meglio, di Bertrand Morane, il protagonista de L’uomo che amava le donne François Truffaut, tutti loro sanno che le gambe ( e non solo quelle delle donne) sono compassi che misurano il mondo; sanno che c’è qualcosa di venerabile nel nomade che si sposta sulla superficie del mondo, lo vive, lo abita, ma non è interessato a possederlo. Per loro l’architettura non è una cosa ma un temporaneo stato dell’essere.
L’architettura è sempre cosa sociale, banale dirlo, ma è giusto ripeterlo qui, proprio perché Luca ha sempre proposto a sé stesso sistemi nei quali coinvolgere l’altro. Lo sguardo di Luca è sempre architettonico, e se l’architettura è cosa sociale, qui si tratta di cercare l’altro, di allungarsi verso l’altro.
Si tratta di costruire ponti, o meglio, di saper essere ponte.
In this short essay on the work of Luca Vitone we will discuss mirrors, architecture, dust and some other – a few other – things. Let’s take it one step at a time. Luca himself provided me with the stimulus when, a few days ago, talking about mirrors in the work of Michelangelo Pistoletto, he pointed out the similarities between those works and John Cage’s famous 4’33.” The mirror is passive; it listens to the world, makes space for it, gathers it in. The mirror feeds on the world and, in so doing, increases its lucidity. In the same way, through the passive sound of a few minutes, what Cage generates is an oasis for the world, which discovers itself as new. My essay could end right here; replace the word mirror with “Luca’s research” and I have already said more than I ever could have said otherwise.
Since the first time I can recall having encountered his work, many years before I met him in person, since those actual-size layouts placed on the floor they represented, I have never stopped thinking about his work as a collection of exercises conceived to intensity our awareness of being in the world. Exercises that wind up, in the end, by establishing a method, for Luca himself and for his audience.
Since that day many others have passed, and those gestures have never stopped winding up the mechanisms of things, and their meaning. For a wind-up mechanism to work, it has to be like two mirrors, facing each other: it has to multiply, to turn many times upon itself, to return to values to consolidate them, capture them and then begin anew. In all these years Luca’s focus has always been the human subject, in the anthropological and social sense, and this always shiny mirror has worked as a sounding apparatus of the memories, plots and stories that make up our gaze. Visual art is made of gazes, and here it is worth noting that instead of a stable, static gaze, here we have the fleeting reflection of a mirror, which does not impose on the world what does not exist there, but restores its very image, wound up with meaning, laden with responsibility. A mirror captures things with great precision, like a skin mapping, but it is aware of the fact that what it captures will escape, later.
Things do not offer themselves to a permanent gaze, but only to those who are willing to follow their trails and their suggestions. The world is not a finished object, but a plant that seeks water; it cannot be put into an enclosure, because it is a process in a state of becoming, a river that becomes a waterfall precisely when you least expect it.
There is nothing to say, only to be
As with Piero Manzoni, author of the above phrase which Luca has written on a black banner, here again we are in the midst of a dialectic between universal and ideal, body and concept. The concept does not live without body, experience, sharing. Culture exists only if it is material.
Different paths exist for experiencing and listening to material culture. The first and most abused is what I might call investigation, which looks at the world as a rebus to solve, and therefore examines things of the world in pursuit of clues and proofs. Here, instead, along the path traced by Luca, things are interpreted in a different way: truth does not require proofs; mirrors will suffice. Mirrors that, as Cocteau hoped, are capable not only of reflecting things, but also of reflecting on them.
If material culture comes prior to any other type of knowledge, all we can do is sniff the world, taste it, explore it, wander through it, to immerse ourselves in things. This brings to mind the focus on food, and the abundant use Luca has made and continues to make of sound, and music, in an authentic Operation of Taste. An aesthetic that by definition engages the senses, but first and foremost that of taste. Sound and food are simple, immediate materials that permit, or even impose, a direct relationship with things. Striking out senses, they involve is without the need for intellectual mediation. We can take part without relying on an interpreter or a guide to tell us how we are supposed to behave. The force of the discussion Luca began many years ago, by pursuing the links between food and identity, is paradoxically reinforced in the distorted form it has assumed, very far from his way of acting, where everyone today, from soccer coaches to balding singers, has been transformed into a producer of olive oil, wine, the ancestral fruits of the earth. Food seems more and more like the identity fuel of our body and, from there, of our presence in the world. If I am what I eat then I can determine myself by producing what I eat, getting to the crux of the matter. Emancipation from production chains seems to lead to true authenticity, closer to the roots of being. Where this genuine hunger for good sense might seem like a useless digression, it becomes an effective demonstration of the force and timeliness of Luca’s work. If we are the result of the sum of different cultures, actions and mistakes, it doesn’t make sense to try to reconstruct ourselves as if we were the result of algebraic calculation. Instead, it would be better to look for the tools with which to grasp the flavors of our heterogeneous origin. What we call an Operation of Taste here is doubly effective. First, it reaches us on a territory where it is not possible to have defenses, on which it is impossible not to have a position. Second, through taste, the artist calls the awareness of our position into play, on the social ladder, in terms of status and geography; we are not allowed to pass ourselves off for someone or something we are not. By calling pleasure, our taste, into play, Luca focuses the question on that inextricable knot of endless choices that make us what we are, that define us and our history, that formulate our position in the world. Addressing the issues of taste, Luca constructs an encounter between worlds. He does it with sound, with cuisine, and with his non painting. His monochromes are abstract maps that could be read the way people read coffee grounds, composed of traces melted together that give the illusion – just as we do – of being a single thing only if they are seen from a certain distance. The crystalline quality of our identity is a mirage, and the illusion depends only on the degree of proximity of our gaze. With their residues of ashes from the incineration of trash, or of noble powders like saffron, the works Luca calls monochromes are spurious, heterogeneous objects, since they are the result of a combination of accidents. Coloring by letting atmospheric agents, wine or flames govern the course of things means obtaining the portrait of a place dictated by the subject itself. It is the expression of a character, the essence of a place that as in the creation of a perfume, or in homeopathic medicine, emerges by synthesis, through sublimation of matter. The result is not a pure, perfect object, as expected by the modernist tradition that generated the monochrome; it is mobile matter that wants to live, to be, to throb and swarm.
Movement is everything, the end is nothing
This is another phrase I have read on one of his black banners, hung close to the one mentioned above. Flags, as we know, are the standards of nations, to pay tribute to parts of territory whose value is indicated by signs and meanings contained inside a border. Luca’s flag is the flag of a nation that has no borders, that does not believe in borders. It respects them, but does not believe in them. Like a fish without gills that cannot stop swimming to drink oxygen, the inhabitant of this nation does not know the meaning of standing still. I like to think that the black banners Luca has often used to map sites related to anarchist or libertarian thought, wind up indicating service stations available to the restless marathon runners who inhabit this nation. Time is not measured, it is determined by one’s movements. This is the axiom put into practice by all nomads, who blend space and time, inches and experience in all their trajectories. Experience, of course, because walking is not a solipsistic exercise, it readies us for the encounter, it is stepping into the shoes of others to become better acquainted with our single, large Wide City.
There exists an irregular company of walkers I think has accompanied, and will continue to do so, Luca from his voyage in Iran as a teenager to the one we shared in Rügen, and beyond. A numerous company that includes, among others, Celati and Walser, Jean Paul and Hamish Fulton, as well as the inability to reside of Rilke, as well as Diogenes and his lantern. Prior to and better than Bertrand Morane, the protagonist of The Man Who Loved Women by François Truffaut, they all know that legs (and not just those of women) are compasses that measure the world; they know that there is something venerable in the nomad who moves on the surface of the world, lives it, inhabits it but is not interested in owning it. For them, architecture is not a thing, it is a temporary state of being.
Architecture is always something social, it is banal to say so, but it is correct to repeat it here, precisely because Luca has always proposed for himself systems in which to involve others. Luca’s gaze is always architectural, and if architecture is something social, here the idea is to seek the other, to reach out to the other. To build bridges or, more precisely, to know how to be a bridge.