Kinkaku-Ji, First published in Italian in: Luca Trevisani, Water Ikebana. Stories About Solid and Liquid Things, Humboldt Books, Milan, 2014, pp. 91–109.

Dal centro di Milano si prende un tram che sale verso nord. Da Piazza Cadorna il 19 sale fino all’ospedale Sacco. I mezzi pubblici sono molto logici nell’organizzare le loro traiettorie, esaudiscono la domanda, non si muovono a caso.
È scontato che la corsa non prosegua oltre l’ospedale. Non avrebbe senso perdersi in un terreno indefinito che rimane tra la fine di Milano e l’inizio di un hinterland che non si sa bene dove cominci. Dopo l’ospedale inizia una zona che non ha un nome, ma ne ha tanti, quanti sono i nomi dei paesi inglobati dalla crescita esponenziale della città. Paesi che non sono più paesi ma che non sono ancora Milano.
Negli anni Cinquanta, dopo la fine della guerra, i luoghi che stiamo attraversando a piedi, dopo essere scesi dal tram al capolinea, vicino al baracchino dei gelati, erano ancora paesi, con una loro urbanistica precisa. Di certo, cosa più importante, avevano una loro identità ancora chiara e definita. In fondo, quasi all’orizzonte vista da questi luoghi che la irroravano di forza lavoro, c’era la grande Milano che rinasceva dalle macerie.
Avete visto Il Posto di Ermanno Olmi? Ecco, una cosa così.
Questi paesi erano antichi ma si preparavano a diventare moderni, erano una cerniera tra il passato che si stava esaurendo e qualcosa di diverso che bussava alla porta.
Forse la fame di futuro, di cambiamento e di emancipazione si poteva misurare nell’aria come si fa con le radiazioni con un contatore Geiger. Probabilmente la smania di nuovo era anche vissuta con fastidio, un entusiasmo ingiustificato, cose da giovani. «Quello che lasci tu lo conosci, cosa speri di trovar?».
Di certo la fame di futuro era così forte da coinvolgere chi storicamente non si è mai fatto abbindolare dalle smanie di progresso. Nuove case andavano a colmare il vuoto lasciato da quelle distrutte o a soddisfare nuove necessità. Case nuove perché di fresca costruzione e ancor più nuove per le tecniche, le tecnologie e le modalità con cui erano state pensate. Se tutti sentivano il bisogno di una nuova casa, questo riguardava gli uomini ma anche il loro
Signore. Nuove case e nuove chiese crescevano in quel territorio in definizione. Era il dopoguerra, l’inizio del boom economico, il processo esplosivo che in soli dieci anni trasformarono l’Italia da paese prevalentemente agricolo, sostanzialmente sottosviluppato, in un moderno paese industrializzato.
Camminando oggi in questa provincia italiana, simile a se stessa tra rivendite di auto usate, pensiline di tram vandalizzate e fiori sui balconi, è facile perdere l’orientamento. Tutto sembra indistinto e scolorito, ci fermiamo per un caffè e, svoltato a sinistra al termine di una strada stretta, quasi a senso unico, ci troviamo davanti a qualcosa di imprevisto e di difficile da decifrare.
Immaginate di vedere un capannone industriale di quelli che disegnano il paesaggio del Norditalia, che riempiono la campagna tra Milano e Venezia. Un totem moderno: il classico capannone della piccola-media impresa italiana, ma con una grande croce di legno davanti.
Un tetto orizzontale – di cemento – che copre uno spazio racchiuso da un involucro lattiginoso e abbastanza misterioso. Un misto tra un cantiere di un edificio non finito e un esempio di architettura povera, post-sismica, veloce da mettere in piedi, first aid a basso costo.
Anzi, ecco, meglio: pensate a una maquette, a un plastico in scala realizzato da uno studente del Politecnico cresciuto in fretta durante la notte, come sotto un incantesimo, fino a guadagnare una grandezza reale. Mentre cresceva velocemente non ha avuto il modo – né il tempo – di sistemare le proprie piccole pecche e si mostra al nostro sguardo così com’è.
Un’architettura a bassa definizione, costruita attingendo a un catalogo di materiali industriali economici del tardo XX secolo.
Servirebbe una foto, lo so, ma questo non è un libro di Sebald.
Penserete a uno degli edifici che vengono normalmente pubblicati dai blog di architettura più sofisticati, tutti i requisiti sono soddisfatti: tetto piano, corpo decisamente squadrato e una lontana somiglianza modernista con una stazione di servizio o un qualsiasi corpo industriale.
Non potreste essere più lontani: quella che vi sto descrivendo, che ci crediate o meno, è una chiesa progettata e realizzata nei tardi anni Cinquanta, uno dei frutti più interessanti della campagna di ricostruzione postbellica delle chiese milanesi voluta dai vescovi Schuster e Montini.
Per la costruzione della chiesa furono scelti materiali moderni, come il cemento armato delle quattro colonne portanti e delle due travi trasversali, le uniche parti gettate in opera. Il tetto venne realizzato con elementi prefabbricati a forma di X e le pareti costruite con un sandwich di vetro e polistirolo. All’esterno si trova un piccolo contorno di verde, un lenzuolo d’erba circondato da un muro di sassi e cemento grezzo, in aperto contrasto con le pareti lisce e diafane dell’edificio, una cinta perimetrale medievaleggiante che finisce per sottolineare il marcato carattere sperimentale della chiesa. Entrando nell’edificio dal suo ingresso principale, raggiunto scendendo una scala che conduce ben sotto il piano stradale, ci si trova in un ambiente buio e umido che ospita il battistero e che rafforza il contrasto con il bagno di luce che si riceverà appena salite le scale.
L’interno della chiesa in cui piombiamo è ricavato da un’unica aula, un unico volume regolare le cui pareti in vetro opacizzato sono direttamente appoggiate al pavimento e fissate alla struttura portante in soli quattro punti, in corrispondenza delle travi trasversali principali. La luce è il vero materiale da costruzione del progetto, lo fa vibrare in un candore diffuso. Le fotografie dell’opera appena compiuta documentano come il materiale isolante rendesse abbagliante sotto la luce del sole il volume bianco della chiesa. Di giorno diffondeva al suo interno la parte di luce solare filtrata dalla materia biancastra mentre la sera, illuminato dall’interno, si trasformava in una lanterna diafana e irreale.
La trasfigurazione dello spazio opalescente avviene all’alba e al tramonto, a ogni variazione di luce, sottolineata dal rigido rigore della struttura portante. Lo scheletro costruttivo è il palcoscenico di questo spettacolo quotidiano che celebra il divenire.
Questa chiesa è un’opera d’arte radicale, è un manifesto teoretico. Mangiarotti e Morassutti conquistarono le pagine dei giornali con la costruzione della Chiesa di Vetro: i tradizionalisti storsero il naso e lo scrissero nero su bianco.
Colpiscono le parole espresse in quei giorni dalla committenza, nonostante le polemiche anzi forse proprio alimentate da queste, per bocca dell’allora Arcivescovo di Milano, il Cardinale Giovanni Montini, il futuro Papa Paolo VI. A chi gli chiedeva se potesse benedire una chiesa così concepita, rispondeva che vi scorgeva «un profondo simbolismo». L’architettura infatti, priva di decorazioni, era predisposta alla comunicazione del fatto sacro, riuscendo con la semplicita  a far riaffiorare la simbologia liturgica. Il legame che univa spirito e materia era la sua energia.
È la combinazione di questi tre elementi a generare il nostro mondo tangibile. Affamato di realtà, l’uomo a Baranzate si scopre nell’effimero. L’aspetto della Mater Misericordiae è notevolmente cambiato nel corso del tempo e non assomiglia più a quello che la struttura aveva immediatamente dopo la messa in opera: la tamponatura in polistirolo, compressa tra due lastre di vetro, si è spezzata, è stata erosa e consumata dal tempo, si è frantumata in mille pezzi e ora è inservibile come coibentante e inutile come filtro solare.
I muri della Mater Misericordiae non sono più come dopo la messa in opera, in questi anni il loro polistirolo si è spezzato, eroso dal tempo si è frantumato in mille pezzi, ora è inservibile come coibentante e inutile come filtro solare. Oggi dentro quei pannelli c’è come un purè di polistirene, segnato da nervature disegnate dal controluce. La vitalità esuberante della materia a basso costo ha preparato copie in miniatura del Cretto di Burri.
Si ribalta Hegel e la sua idea di architettura. Questa non occupa più il gradino più basso della gerarchia artistica. Il peso della sua materialità smette di essere sconveniente.
Proprio i suoi piedi nel fango, il suo fragile peso, conducono verso lo Spirito. L’umana vita mortale, solitamente raccontata nello sfarzo, qui è nuda e delude di certo chi cerca il potere avvolgente del racconto pomposo.
La chiesa non è più una casa, un edificio che accoglie, protegge e tutela dalle intemperie e dai pericoli della vita, ma è una macchina simbolica. È il banner pubblicitario per un rinnovato pauperismo. L’eterno vive nell’effimero.
A Baranzate non si dimentica per un solo secondo che il nostro è un mondo caduco e, più che un edificio, questo è un mandala tridimensionale, inquietante e sensualissimo nella sua precarietà. Ascetico come un Anselm Kiefer che, abbandonata la retorica della materia magniloquente, prepara un diaframma in plastica, per poi mandarlo eroicamente a confrontarsi con le intemperie. Spoglio di tutto, il progetto adotta la severità estrema della regola francescana. La sua innovazione non segue fini mediatici, ma soltanto risvolti pratici. Provate a entrarvi in agosto e capirete che l’architettura parla al corpo che la abita,
prima che a quello che la vede riprodotta. La luce, per esempio, che è di certo un elemento classico del linguaggio dell’architettura, ora è arricchita da una nuova dimensione biologica; con l’intensità e la lunghezza delle sue onde riesce a influenzare l’invecchiamento progressivo dello spazio e non solo la melatonina presente nel corpo di noi che lo viviamo.
L’architettura non è più l’espressione del gioco di luci e ombre sui corpi e sui materiali e racconta qui, anche se per un bellissimo errore, la sua dimensione corporea.
La luce metabolizzata dalla fotosintesi permette all’anidride carbonica e all’acqua, tramite una reazione chimica che si consuma all’interno delle piante, di diventare elementi vitali quali sono l’ossigeno e il glucosio. Il 1957 non è ancora il tempo di Philippe Rahm e della sua architettura metabolica.
Gli aspetti organici espressi dalla Chiesa di Vetro non vanno interpretati in senso letterale, sono solo un suggerimento simbolico, una presentazione in chiave brutalista di una nuova, possibile, semantica biologica. L’eclettismo materico della sua tamponatura rende possibili nuovi traguardi fisici e sensoriali: i pannelli che la compongono sono da interpretare come schermi di proiezione emozionali, psicologici.
Mater Misericordiae è un breve romanzo fisiologico, vi emerge la forza narrativa del dato biologico, raccontato grazie alle sue proprietà allegoriche. Lo spazio non può essere immaginato semplicemente come un vuoto, come l’assenza spirituale contenuta da pareti, pavimento e soffitto, ma come una massa a bassa densità; un vuoto invisibile all’occhio, ma in cui il corpo è immerso. La Rothko Chapel di Houston, trasportata in Lombardia, si trasfigura. Il calore del sole evapora il colore della pittura astratta, mentre la luce tramuta le tele di Rothko in una radiografia di plastica. Trasfigurare se stessi significa pensare in ogni istante l’essenza della purezza, il proprio respiro fa il resto, distribuendo nuova vita a ogni nostro singolo atomo, restituendo a tutte le particelle un corpo rinnovato.
La pelle della Mater Misericordiae vive in maniera incerta la propria qualità formale, è la visualizzazione di una figura astratta, è il campo di battaglia dove il materiale combatte contro il suo invecchiamento precoce.
È un parallelepipedo spartano, in cui ogni lato è a sua volta diviso in rettangoli, porzioni di spazio, mondi a sé stanti, ecosistemi, vetrini da laboratorio sovradimensionati in cui indagare vitalità microscopiche. Le porzioni in cui è diviso ogni lato del parallelepipedo sono parti di un puzzle che indaga il mondo degli elementi e quello delle relazioni, in un gioco combinatorio delle forme e dei materiali. È una struttura cinematica, un universo in espansione che utilizza le regole dettate dal modulo di cui è composto per crescere nello spazio, procedendo per passi successivi, utilizzando le piastre che lo compongono come fonemi linguistici di una partitura misteriosa. I materiali isolanti non sono elementi a sé stanti, ma sono collegati tra loro da una serie di trasformazioni chimiche, fisiche e biologiche.
Non è solo un gioco di parole; una delle conseguenze, per esempio, è il passaggio dalla parete come elemento tettonico che separa l’interno dall’esterno a un nuovo concetto di muro come strato. Gli spazi sono definiti dai coefficienti termici che li differenziano.
Ragionare sul legame che intercorre tra le diverse parti di questa pelle significa ricostruire una serie di percorsi climatici, seguire i flussi che ne hanno segnato le crepe, screpolato la cute, cambiato l’aspetto. La sua dermatite si sviluppa con sinuosità orientale, il decoro germoglia dal semplice. Materia e memoria sono omologhe, risultato di un fare topologico. La continuità dei rapporti tra organico e inorganico, tra materia e organismo vivente, è evidente.
Come in una coltura batterica ogni pannello è un allevamento di forme, dove sguazzano i pensieri di Bergson e Deleuze. La materia e l’organico non sono più paradigmi contrapposti, sono due vettori sulla stessa linea di forza, due diverse polarità appartenenti al medesimo sostrato. Tutta la materia, organica o inorganica, è costituita da pieghe, è un tessuto.
L’acrilico di Baranzate è montato a neve come albume, ha la consistenza di una nuvola.
Anche qui, come osservando il cielo, si spendono ore a leggere forme e riconoscere profili. Strutture e figure sono generate da un tessuto; ogni materia è caratterizzata dal modo peculiare in cui si piega e si dispiega, vive e prolifera.
Dimentichiamo l’opposizione tra materia e forma, pensiamo invece ai materiali e alle forze che li attraversano. Sostituiamo all’opposizione una tensione. Invece di due principi opposti, cerchiamo d’ora in poi la continuità nella differenza.

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I diversi comportamenti che possiamo assumere verso il mondo oggettivo, al di fuori di noi, vengono distinti da Jung in due categorie fondamentali: l’introversione e l’estroversione.
Il rivestimento della Chiesa di Vetro è una vera e propria pelle che regola l’estroversione e ne limita l’introversione, possiamo dire seguendo Jung.
Lo stato di degrado degli elementi esterni della chiesa è dovuto ai materiali che vennero scelti; selezionati per il loro forte impatto innovativo, erano davvero sperimentali. E a volte gli esperimenti, semplicemente, falliscono.
Solo ora il polistirolo mostra la facilità con cui crepa e cede all’escursione termica. Chiuso in un’intercapedine di vetro, è un tenero paravento di carta giapponese della Brianza del miracolo economico, involontario wabi-sabi, pseudo Feng Shui, tutto pelle come uno Shar Pei.
La pelle psichica con cui la Mater Misericordiae si presenta al mondo è la metafora di un linguaggio organico dalla spiccata sensibilità pittorica. La chiesa non è mai stata un’opera finita, così come venne consegnata a cantiere concluso, ma ha vissuto e vive nel tempo; è la manifestazione fisica del suo processo creativo, sviluppato nei decenni successivi, protetto dalla calma della periferia milanese. Non si ricorda nessun grosso incidente, nessun evento memorabile: solo un tenace lavorio della materia; impercettibile, ma concretissimo. Sì, nel 1979 una bomba, un ricatto terroristico, distrusse parte del rivestimento, ma non ebbe alcuna interazione col lento divenire della materia. Dopo la deflagrazione, e l’incendio che seguì, si rimisero le cose a posto, si sostituirono dei pannelli, si azzerò il cronometro e la mutazione ripartì indisturbata.

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L’architettura è tutta superficie, tra scorza e nocciolo non c’è alcuna differenza. La pannellatura protegge, contiene e – primariamente – esercita una funzione simbolica.
L’involucro immaginato inscalfibile assomiglia ora al blocco note magico, la metafora con cui Freud ha sviluppato l’istanza dell’Io. Su questo curtain wall, muro di tende friabili, la Glasarchitektur si imparenta con l’intimità temporanea delle tende che troviamo nelle stanze degli alberghi. Hedi Slimane vi ha dedicato un libro, fotografando quelle dello Chateau Marmont e di altre tappe obbligate per ogni world traveller che si rispetti. Nel tempio dello chic come nella chiesa operaia, nell’intimità temporanea come nella casa dell’eterno, rimane il disperato tentativo di trasferire la memoria evanescente nella solidità delle cose che ci attorniano.
Nel 1957, mentre le operazioni nel cantiere di Baranzate proseguivano febbrili, Yves Klein esponeva a Milano, presso la Galleria Apollinaire, undici dei suoi monocromi. Non molti lo sanno, ma lo stesso anno il genio francese aveva iniziato a progettare edifici e intere città, ispirandosi ad antichi palazzi islamici. Se ben ci pensiamo, anche i decori che oggi troviamo a Baranzate sono la versione aggiornata degli stucchi dell’Alhambra di Granada, una muffa distorta cresciuta in un morphing digitale, obbedendo alla logica del pixel. Klein era maestro di arti marziali, sapeva bene che nel judo gli avversari sono considerati collaboratori. Se il pensiero olistico era alla base del suo lavoro, lo stesso si può dire per la pelle di Baranzate.
Il lavoro architettonico di Klein non è molto conosciuto. Come per Francesco Lo Savio e Piero Manzoni, l’architettura era il logico punto d’approdo di una matura ricerca spaziale.
In quel periodo Klein lavorava a stretto contatto con Claude Parent e Werner Ruhnau, pianificando la dematerializzazione del gesto architettonico, sognando un’architettura d’aria, una rivoluzione che evaporasse l’infrastruttura fisica del mondo. Immaginò che interi continenti potessero diventare grandi sale di un soggiorno comune: sarebbe poi bastato temperarne il clima affinché l’umanità non avesse nemmeno più bisogno di vestiti.
Niente di meno che un ritorno alla natura. L’uomo finalmente in pace con il mondo non ha più bisogno di case, abita un «Pianeta Fresco», da cui non ha bisogno di differenziarsi.
Come nella nostra Chiesa di Vetro, qui si corrodono i margini tra architettura e paesaggio.
Un approccio all’architettura che riguarda da un lato la scala macroscopica, quella dell’ambiente, e dall’altro la scala microscopica, quella del metabolismo umano, abolendo tutta una serie di relazioni binarie, come la distinzione tra interno ed esterno, o tra privato e pubblico.
Rebooting architecture: Yves Klein imitando il Barone di Münchhausen faceva ripartire l’architettura, spingendola a risollevarsi in aria tirandosi per i suoi stessi capelli.
Klein era un artista e quindi poco interessato all’aspetto edilizio. Non pensava alla busta ma al suo contenuto: il vuoto. L’architettura d’aria non era un catalogo di forme, ma di espedienti per modificare o adattare il clima ai bisogni umani. Alzare la temperatura quando è freddo, l’intensità della luce quando è buio, sognare nuove tecnologie per imporre nuove norme ecologiche.
Normalmente l’architetto organizza una planimetria per ospitare le funzioni che uno spazio è predisposto a soddisfare e, solo successivamente, vi introduce un sistema di ventilazione appropriato. L’architettura d’aria invertiva questa prassi: forma, funzione e tecnologia avrebbero seguito il clima, gli spazi non sarebbero più stati organizzati in conformità alle funzioni, ma in risposta alle esigenze di ventilazione.
Lavorare sulla temperatura e modificare il clima sono solo alcuni dei modi per consentire alle persone di vivere al di là dell’idea di natura, tornando ad abitare il giardino di Eden. In questo habitat utopistico, come a Baranzate, le persone sarebbero state in diretto contatto con la terra e gli elementi, la privacy non sarebbe più stata importante e nemmeno possibile, dal momento che tutti avrebbero condiviso la stessa luce e lo stesso spazio aperto, senza partizioni, toccando la stessa aria invisibile, occupando bagni, cucine, magazzini o luoghi di culto.
L’architettura per Klein era un condotto, un palcoscenico, una porta verso un ambizioso progetto olistico. Il principio di riservatezza che struttura il nostro stare al mondo è scomparso in questa città immersa nella luce, completamente aperta verso l’esterno.
Se la città è fatta d’aria, prevale una nuova atmosfera di intimità collettiva, i suoi abitanti vi vivono nudi. La struttura patriarcale della famiglia primitiva non esiste più, sostituita da una comunità libera, individualistica ma impersonale. Klein scriveva in quel periodo: l’umanità si immergerà nella materia grezza, la sensibilità dello spazio impregnerà la sua sensibilità, condizionata dallo spazio.
Un nuovo veicolo umano, un nuovo potenziale immateriale del nostro corpo sarà scoperto. La nuova aristocrazia sarà quindi composta da esseri umani dalla sensibilità forte e pura, capace di dissolversi nell’infinito e di vivere in un intervallo molecolare. Prendo in prestito la nozione di «intervallo molecolare» da Gli insegnamenti di Don Juan, il libro in cui Carlos Castaneda descrisse come l’assunzione di peyote, monitorata da uno stregone, lo avesse portato a vivere un’esperienza extracorporea. In definitiva, seguendo fino in fondo l’omologia tra casa e corpo, Yves Klein il rosacrociano, sulle orme dello sciamano Castaneda, stava imparando a percepire l’energia per come fluisce direttamente nell’universo. La percezione del mare oscuro della consapevolezza è l’apice culminante di ogni sciamanesimo. Quello che sperimentò Castaneda è il potenziale attraverso cui gli esseri umani possono trascendere tutto ciò che è loro noto.
La ricerca dello sciamano, dunque, è aspirazione a raggiungere un livello di energia pura, fino a diventare un essere inorganico. Se ogni viaggio è una rivolta cognitiva, questa volta la tensione spinge verso una completa libertà.
Angelo Mangiarotti non era certo uno sciamano, ma un buon borghese lombardo. Seminò i suoi maggiori successi architettonici vicino al centro di Milano. I progetti radicali non sono certo al centro del suo sforzo creativo, e forse per questo è in periferia che riuscì a liberarsi dalle convenzioni.
Ma torniamo per un attimo a Klein, al maestro di judo. Il suo pensiero era influenzato da concetti zen: quello che inseguiva e che descriveva come il vuoto era un serafico nirvana privo delle influenze del mondo, una zona dove l’attenzione fosse rivolta solo alla sensibilità e alla realtà. Vuoto spirituale, ma non per questo meno mondano, anzi. Poteva essere il frutto di una cerimonia pubblica, come un happening dilatato nel tempo, lungo decenni.
Il suo pubblico avrebbe potuto simultaneamente sentire e capire le sue idee, disciolte in una nuova sensibilità spaziale. Coltivare il vuoto era la sua missione, per questo il suo lavoro sul clima era in cima all’agenda. Muri di fuoco erano predisposti per i climi più rigidi a settentrione, mentre pareti d’acqua erano previste per il sud; gusci d’aria mobili avrebbero fornito protezione dalla pioggia: tutte applicazioni di un disegno complesso, predisposto su scala planetaria. Klein, membro onorario del club dei visionari, sognava di realizzare un impianto di condizionamento della superficie del globo. La sua ambizione più grande era quella di costruire un complicato sistema di turbine e gallerie del vento capace di avvolgere il mondo intero in una sorta di busta atmosferica, per dotare la sfera che abitiamo di un tetto invisibile. Un Buckminster Fuller europeo, ma senza cupola geodetica, la cui sfida era costruire una griglia immateriale che non sarebbe mai divenuta architettura.
Tra il 1959 e l’anno della sua morte precoce, Klein produsse innumerevoli progetti e ne mise a conoscenza tutte le persone che riteneva abbastanza potenti e sufficientemente idealiste da sposarne la causa. I suoi piani viaggiarono per i sistemi postali di mezzo mondo, arrivando fino alla scrivania di Fidel Castro. Complimentandosi per il coraggio, l’onestà e l’audacia del lider maximo, Klein sperava che a Cuba fosse disponibile del terreno fertile per saggiare la sua utopia. Castro non rispose mai e l’Eden irrealizzato di Klein venne del tutto dimenticato.

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In tutta onestà vi devo confessare che la cosa che mi strega immediatamente della Mater Misericordiae è il suo aspetto: una pelle di polistirolo contenuta in un sandwich di policarbonato che, come il viso grinzoso di un capitano di vascello, porta i segni di tutte le primavere e di tutti gli inverni che ha visto passare.
Il polistirolo contenuto in quella camicia trasparente si è sgretolato, rotto, polverizzato, grazie al freddo dell’inverno e alla luce dell’estate. Molti fotografi famosi sono venuti qui per immortalarlo.
Più che una chiesa o un capannone industriale la chiesa di Baranzate, in effetti, sembra una serra troppo calda d’estate e troppo fredda d’inverno. Una macchina termica poco ospitale che, al posto delle piante, sembra essere pensata per crescere cristalli essiccati dal sole, figli di un lago salato verticale. Un acquario disidratato. Una fabbrica dell’inanimato.
Il mondo è uno spazio da coltivare, dall’innata organicità. Nonostante la sua innegabile bellezza, non è una forma da contemplare, ma un organismo da studiare con cui
confrontarsi. Baranzate ci ricorda che niente nel mondo in cui abitiamo è forzato e stabilito, ma sempre e solo il risultato di una naturale crescita e germinazione. Nel mutamento degli elementi risiede la bellezza più vera, quella che non ha bisogno di aggettivi ma dell’osservazione delle energie che vi si dispiegano, che vivono e che ci attraversano ogni giorno. Quei pannelli sono aratri che coltivano l’obsolescenza, campi arati dal tempo, sottoposti a uno sforzo che non sanno gestire, solidificazione del loro fallimento. La grandezza dell’uomo si accompagna da sempre alla precarietà delle sue azioni.
Il mondo che conosciamo è il risultato della somma dei nostri tentativi; a volte sono proprio quelli non riusciti che ci regalano traguardi imprevedibili. Una parte della nostra storia, compresi molti dei traguardi importanti che l’uomo ha guadagnato, si è determinata a partire da incidenti, fallimenti involontariamente floridi.
Un giorno Alexander Fleming lasciò accidentalmente le piastre di Petri, su cui lavorava senza copertura, nei pressi di una finestra aperta, mentre eseguiva un esperimento con colture batteriche. Attraverso i vetri aperti, il suo esperimento si era contaminato. Fleming era sul punto di gettare via i piatti, in preda alla rabbia, quando notò delle strane zone all’interno delle capsule, dove la coltura batterica non era più in grado di crescere. La muffa che vi era cresciuta era antibiotica e impediva ai batteri di proliferare. Iniziò in quel momento, ascoltando il caso, la ricerca su quanto era avvenuto che lo condusse alla scoperta della penicillina. Non conta se quanto accadde avvenne per caso, qui la fortuna non c’entra nulla; quello che conta è la predisposizione a osservare tutto ciò che accade e a leggere gli eventi per quello che davvero regalano. Conta la consapevolezza di quello che si sta cercando, che conduce fino alla sua scoperta.
È fondamentale tenersi aperti a qualsiasi cambiamento.
Non ci resta che leggere nel paesaggio di polistirolo di Baranzate quello che ha da raccontare. Sin dall’antichità gli uomini si sono ingegnati a interpretare il mondo, l’arte propriamente detta è nata con l’arte divinatoria. Abbiamo iniziato a leggere le macchie del mondo per poi passare ai fondi di caffè e non sarebbe per nulla strano iniziare a osservare anche questi arabeschi di polistirolo nello stesso modo, frutto di una scrittura automatica non più di stampo surrealista, ma postindustriale.
Plinio il Vecchio racconta che leggeva il viso di Apollo intrappolato nei lineamenti dell’agata. Sulla sua scia letterati e uomini di corte hanno da sempre fatto a gara per carpire il segreto delle immagini generate dalla superficie del mondo. Roger Caillois, a cui ho rubato molti spunti, e Jurgis Baltrušaitis, che vive sottotraccia in molte di queste pagine, sarebbero felici di questa digressione, come chiunque altro appassionato collezionista di pietre o di aberrazioni formali.
È la curiosità che ci spinge a interpretare il mondo che vediamo là fuori, lo disegna come fanno le madri che imprimono le voglie non soddisfatte in gravidanza sulla pelle dei nascituri. È così che scopriamo il profilo delle divinità o del cantante del cuore nelle macchie di umidità in un sottopassaggio della metropolitana, cedendo senza remore alla nostra insaziabile sete di immagini. Così accadeva nell’epoca dei gabinetti di curiosità, che contenevano lo strano trovato e lo strano costruito: quel che non si può avere, ma che si vuole credere, lo si genera. Un atto di fede vero e profondo non ha paura di generare la cosa a cui vuole obbedire, in un cortocircuito isterico. Secondo un adagio di Carl Andre l’arte è ciò che facciamo, mentre la cultura è l’insieme delle pratiche che subiamo: con lui vi invito a fare, sempre, per poter vedere.
In questo polistirolo frantumato che non vedete, osservate, vi prego, il flusso del tempo.
Il paesaggio di polistirolo frantumato è un’evidente messa in scena. È inevitabile compararlo con i procedimenti misteriosi e lenti della geologia. La Chiesa di Vetro è il tempio che sacrifica la vanità e celebra la violenta precarietà della cosa umana. La fantastica intuizione, a suo modo geniale, di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti di calare una chiesa industriale nel mezzo della Lombardia operosa sostituisce lo sfarzo con la forza delle scelte radicali.
L’anticonformismo, però, non sempre premia. A distanza di qualche decennio la chiesa iniziò a mostrare i suoi limiti. Non tanto edili, ma di immaginario.
Non sorprende che i fedeli della zona preferiscano prendere la macchina e dirigersi lontano dalle loro case, andare in un’altra parrocchia per sentirsi accolti nel loro credo, in un edificio che risponda meglio alle promesse. Non è da biasimare il fedele che fa quella scelta, è una questione di narrativa. La cosa buffa, e abbastanza paradossale, è che la chiesa che per i fedeli è uno squallido e «freddo» prefabbricato, scalda invece gli entusiasmi degli amanti dell’architettura contemporanea, per i quali è diventata un vero e proprio oggetto di culto.

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La committenza si aspettava una cosa inerte e si è ritrovata tra le mani una macchina vivente, che come tale va seguita, assistita quando in bisogno di cure, monitorata.
Tutto sembra progettato con malizia per innervosire chi deve davvero abitare questo luogo. Anche il campanile alla destra della chiesa risponde alla stessa legge, è una spirale in ferro che sale all’interno di uno scheletro di cubi sovrapposti, l’ultimo dei quali contiene le campane. Una semplice gabbia metallica senza copertura di alcun genere. Tutto è a vista, nudo ed esibito alle intemperie, gioia per la ruggine che vi cresce festosa.
Chi e come dovrà affrontare l’invecchiamento della chiesa di Baranzate?
La Chiesa di Vetro è sotto vincolo artistico dal 2002. Qualunque modifica deve essere autorizzata dalla Soprintendenza al fine di mantenerne l’autenticita e il rispetto dello spirito originario del progetto. Ma qual è lo spirito originario? Conteneva e prevedeva il lento disfarsi dei suoi materiali? Di certo il progetto di restauro della chiesa risulterà lungo e dispendioso, dovrà tener conto della linea di pensiero con cui è stato concepito l’edificio, comprensivo degli aspetti materici e cromatici.
Un costosissimo mandala da restaurare: per non intaccarne la fragile concezione saranno necessari diversi milioni di euro. Chi può decidere quando e come sostituire il polistirolo danneggiato e chi può scegliere il materiale con cui sostituirlo? Il proprietario? O chi ne detiene i diritti d’autore? Un’architettura vincolata dai beni culturali diventa un’opera d’arte e va restaurata come se fosse un’opera d’arte? Inoltre, se il polistirolo del 1950 non fosse più disponibile, o se si rivelasse troppo deperibile, chi è deputato a deciderne la sostituzione?
Klein non solo sembra aver anticipato questi temi, di più, sembra aver risolto un’impasse che suona regressiva, vincolante per l’artista e per il proprietario del suo lavoro. La questione non è incentrata sulla modalità con cui un’istituzione dovrebbe gestire nel tempo questo problema, questa performance, questa idea. La vera domanda è se abbiamo l’ambizione di cambiare il carattere e la struttura delle idee che abbiamo in merito alla conservazione di ciò che è caduco, passeggero. Qual è la modalità con cui il tempo che viviamo gestisce la natura della transizione, simbolica o reale che sia, degli oggetti, dei progetti e delle conoscenze che invecchiano?
Vogliamo vivere in un museo che conserva il mondo sotto una teca o tramandare in un racconto le storie che hanno fatto il loro tempo? Uno dei lasciti di Klein potrebbe essere il riconoscimento che non tutto può o deve essere conservato o raccontato attraverso una mostra, non è vero che ogni opera d’arte è destinata a un museo. Viviamo tempi ossessionati dalla memoria, dal restauro e dalla conservazione delle spoglie.
La celebrazione dell’effimero, che tanto affascina l’uomo post-postmoderno, è cosa contraddittoria e controversa. Klein la gestì a modo suo, brillante come sempre. Morì poco dopo aver dichiarato che avrebbe prodotto solo opere immateriali, il 6 giugno 1962. È come se in quello stesso giorno avesse deciso di trasformarsi lui stesso in immateriale, atomizzandosi: dalle 12:59 di quel giorno è, e sarà per sempre, presente in assenza.
Viene da chiedersi se Klein, e Mangiarotti con lui, non fossero attratti dai rituali e dal teatro in essi radicati, più che dai sistemi di credenza religiosa. In francese spirituel, che si traduce in italiano come spirituale, può significare sia coinvolgimento mistico sia qualcosa di divertente, spiritoso, per l’appunto.
Chissà se Mangiarotti conosceva il francese…

From the center of Milan take a tram north. From Piazza Cadorna number 19 goes to Sacco Hospital. Public transport organizes its routes in a logical manner, they operate to satisfy demand only. It’s obvious that the route doesn’t continue beyond the hospital. It would make no sense to get lost in the undefined terrain that lies between the end of Milan and the beginning of a hinterland that is unclear.
After the hospital lies an area without a name, but it has many, as many as the towns swallowed by the exponential growth of the city; towns that are no longer towns but are not yet Milan.
In the 1950s, after the end of the war, the places that we are crossing on foot after getting off the tram at the terminus near the ice-cream stall were still towns, with their own defined town plan. And most importantly, they had a clear-cut and definite identity. In the distance, almost on the horizon, seen from these places that supplied its work force, was sprawling Milan that was reborn from the rubble.
Have you seen Il Posto by Ermanno Olmi? There you are, something similar.
These towns were old towns, but were on their way to becoming modern, a link between the waning past and something different that was knocking at the door.
Perhaps the craving for the future, for change and emancipation could be measured in the air like radiation with a Geiger counter. It was probably the itch for a new era, even one of worry, unjustified enthusiasm, stuff for kids.
“You know what you’re leaving, what do you hope to find?”
Undoubtedly the craving for the future was so strong that it involved those who historically have never let themselves be fooled by the progress craze. New houses filled the void left by those destroyed or to satisfy new needs. Newly-built houses, even newer due to the techniques, technologies and planning procedures. If everyone felt the need of a new house, it regarded men but also their God. New houses and new churches in a territory being newly-defined. It was the post-war period and the beginning of the economic boom, the explosive process that in only ten years transformed Italy from a prevalently agricultural, basically underdeveloped country into a modern industrial state.
Walking around today in this Italian province, resembling itself between used car dealers, vandalized tram shelters and flowers on the balconies, you can easily lose your bearings.
Everything seems indistinct and faded; we stop for a coffee and, when we turn left at the end of a narrow road, practically a one-way street, we find ourselves in front of something unexpected that is difficult to decipher.
Imagine seeing one of those industrial plants that are a part of the landscape in northern Italy, which dot the countryside between Milan and Venice. A modern totem: the traditional plant of the typical Italian SME, but with a large wooden cross in front. A horizontal roof – in cement- that covers an area bordered by a pretty mysterious milky-white shell. A mixture between the worksite of an unfinished building and an example of post-seismic, “simple” architecture, quick to erect, low cost first-aid.
And it gets better: think of a model or plastic mock-up in scale made by a student of the Polytechnic, built quickly during the night as if under a spell, until it became life-size. As it grew quickly he didn’t have the way – or the time – to fix the minor flaws and it appears to us as it is.
Low-definition architecture, built using a catalogue of economical late 20th century industrial materials. A photo would be useful, I know, but this is not a book by Sebald.
You would think of one of the buildings that are normally published in the more sophisticated architecture blogs, all requirements are met: flat roof, decidedly square shape and a vague modernist similarity with a gas station or other industrial building.
You couldn’t be further from the truth: what I am describing to you, believe it or not, is a church designed and built in the late 1950s, one of the most interesting results of post-war reconstruction of Milanese churches commissioned by Bishops Schuster and Montini.
Modern materials were chosen for the construction of the church, such as the reinforced concrete of the four load-bearing columns and two cross-beams, the only parts cast on site. The roof was made with prefabricated X-shaped elements and the walls built with a glass and polystyrene sandwich.
There is a spot of greenery outside, a stretch of grass surrounded by a stone and rough concrete wall, in open contrast with the smooth, diaphanous walls of the building, a medieval-style boundary wall that stresses the markedly experimental style of the church.

Entering the building from its main entrance that is reached descending a stairway that leads well below street level, you find yourself in a damp, dark room that contains the Baptistery and that accentuates the contrast with the stream of light seen once upstairs. The interior of the church we reach is composed of a single chamber, a single are of even length with walls in opaque glass placed directly on the flooring and fastened to the supporting structure in only four points, opposite the main cross-beams. Light is the true building material for the project; it makes it vibrate in soft simplicity. The photographs of the work just completed document how the insulating material makes the church’s white volume dazzle in the sunlight. During the day it diffuses the sunlight filtered by the whitish material, while in the evening, lit from within, it turns into a diaphanous, unreal lantern.
The transfiguration of the opalescent space occurs at daybreak and at sunset, at every variation of light, stressed by the solid simplicity of the supporting structure. The building frame is the stage of this daily show that celebrates the future.
This church is a radical work of art, a theoretical manifesto.
Mangiarotti and Morassutti made newspaper headlines with the construction of The Glass Church: traditionalists turned up their noses and said so without mincing words. The words used during the period by the client were striking, despite the controversy or perhaps because of it; when asked if he could bless a church with such a design, then-Archbishop of Milan, Cardinal Giovanni Montini, the future Pope Paul VI, answered that he felt a “profound symbolism” in the church. In fact, the architecture, without any décor, was planned to communicate the sacred, and in its simplicity was able to bring out liturgical symbolism. The link that united spirit and matter was its energy.
It is the combination of these three elements that create our tangible world. With his thirst for reality, man at Baranzate finds himself in the ephemeral. The appearance of Mater Misericordiae has significantly changed over the years and no longer resembles the structure it was immediately after it was commissioned: the polystyrene panels, compressed between two sheets of glass, broke, eroded and consumed by time, they shattered into a thousand pieces, can no longer be used as insulation and are useless as a sun filter.
The walls of Mater Misericordiae are no longer what they were when they were installed. Over the years the polystyrene broke, eroded by time, shattered into a thousand pieces, cannot be used for insulation and are useless as a sun filter. Today these panels contain a mash of polystyrene, marked by veins seen against the backlight. The exuberant vitality of the low-cost material has prepared miniature copies of Burri’s Cretto.
Hegel and his idea of architecture is overturned. It no longer occupies the lowest level of the artistic hierarchy. The weight of its materiality ceases to be a handicap. Its feet in the mud, its fragile weight are what lead to the Spirit. Human, mortal life, usually sumptuously narrated, here is nude and undoubtedly deludes those who are seeking the enveloping power of the pompous tale.
The church is no longer a house, a building that welcomes, protects and shelters against the bad weather and dangers of life, but is a symbolic machine. It is the advertising banner for a renewed pauperism. The eternal lives in the ephemeral.
At Baranzate, you do not forget for a single second that ours is a temporary world and, more than a building, it is a three-dimensional mandala, disquieting and very sensual in its precariousness. Ascetic as an Anselm Kiefer that, having abandoned the rhetoric of magniloquent matter, prepares a plastic diaphragm to then send heroically against the winds. Stark bare, the project adopts the extreme severity of the Franciscan order. Its innovation does not follow media goals, but only practical implications. Try going there in August and you will understand that an architectural construction speaks to the body that inhabits it, before the one that sees it reproduced.
Light, for example, which is undoubtedly a traditional element of architectural language, is now enriched by a new biological dimension; with the intensity and the length of its waves it manages to influence the progressive aging of space and not only the melatonin present in the body of us who live it.
Architecture here is no longer the expression of the game of shadows and light on bodies and materials and shows its corporeal dimension, even if by a magnificent error.
Light metabolized by photosynthesis enables carbon dioxide and water, by means of a chemical reaction that takes place in the plant, to become vital elements such as oxygen and glucose. 1957 is not yet the time of Philippe Rahm and his metabolic architecture. The organic aspects expressed by The Glass Church should not be interpreted literally, they are only a symbolic suggestion, a presentation in a Brutalist key of a new, possible, biological semantics. The material eclecticism of the infill makes new physical and sensorial goals possible: the panels that make it up should be interpreted as emotional, psychological projection screens.
Mater Misericordiae is a brief physiological novel. The narrative force of the biological data that emerge is revealed thanks to its allegorical properties.
Space cannot be simply imagined as a void, as a spiritual absence encompassed by walls, floor and ceiling, but as a low-density mass; a void invisible to the eye, but in which the body is immersed.
The Rothko Chapel in Houston, transported to Lombardy, is transfigured.
The heat of the sun evaporates the color of the abstract painting, while light alters the canvases of Rothko into a plastic x-ray.
Transfiguring oneself means thinking about the essence of purity every second, your breath does the rest, distributing new life to each single one of our atoms and restoring a renewed body to all the particles.
The skin of Mater Misericordiae lives its own formal quality in an uncertain manner; it is the visualization of an abstract figure, field of battle where matter fights against early aging.
It is a Spartan parallelepiped in which every side is in turn divided into rectangles, portions of space, worlds apart, ecosystems, oversized laboratory slides with which to probe microscopic vitalities. The portions into which each side of the parallelepiped are divided are parts of a puzzle that probe the world of elements and that of relations, in a combinatory game of forms and materials. It is a cinematic structure, a universe in expansion that uses the rules dictated by the module it is made of to grow in space, proceeding step-by-step, using the plates that make it up as linguistic phonemes of a mysterious score.
The insulation materials are not elements apart, but are linked to each other by a series of chemical, physical and biological transformations. It is not only a play on words; one of the consequences, for example, is the transition of the wall as a tectonic element that separates the interior from the exterior to a new concept of wall as layer. Spaces are defined by the thermal coefficients that differentiate them.
To ponder over the link that runs between the different parts of this skin means reconstructing a series of climatic routes, follow the flows that have marked the cracks, chapped the skin, changed the appearance. Its dermatitis develops with oriental-like sinuous lines, the décor buds from simplicity.
Matter and memory are homologous, the result of a topological fact. The continuity of the relations between organic and inorganic, between matter and living organism is obvious.
As in a bacterial culture each panel is a breeding ground of forms, where the thinking of Bergson and Deleuze is in its element. Matter and the inorganic are no longer opposite paradigms, they are two vectors on the same line of strength, two different polarities belonging to the same substrate. All matter, organic and inorganic is made up of folds, it is a fabric.
The acrylic of Baranzate is beaten like an egg white, has the consistency of a cloud.
Here too, like observing the sky, hours are spent reading forms and recognizing profiles. Structures and figures are created by a fabric; each material is characterized by the peculiar way in which it is folded and unfolded, alive and proliferous.
Let’s forget the opposition between matter and form and instead think of the materials and the forces that cross them. Let’s replace opposition with tension. Instead of two opposing principles, let’s look for continuity in difference from now on.

The different types of behavior that we can assume towards the objective world, outside of us, are distinguished by Jung in two fundamental categories: introversion and extroversion. According to Jung, we can say that the facing of The Glass Church is a veritable skin that adjusts extroversion and limits introversion.

The condition of degradation of the external elements of the church is due to the materials that were chosen; selected for their strong, innovative impact, they were truly experimental. And sometimes experiments simply fail.
Only now does polystyrene show the facility with which it cracks and succumbs to fluctuations in temperature. Confined in a glass casing, it is a soft, Japanese paper screen, a product of the economic boom in Brianza, involuntary wabi-sabi, pseudo Feng-shui, all skin like a Shar Pei.
The psychic skin that the Mater Misericordiae shows the world is the metaphor of an organic language with a strong pictorial sensitivity. The church has never been a finished work, as it was delivered at the closure of the worksite, but lived and lives in time; it is the physical manifestation of its creative process, developed during the subsequent decades and protected by the calm Milan hinterland. No major incident has been reported, no memorable event: only a persistent working of matter, imperceptible but extremely concrete. In 1979, a bomb, a terrorist attack destroyed part of the facing, but had no interaction with the slow becoming of the matter. After the deflagration and the fire that followed, repairs were made, panels replaced, the chronometer was set to zero and the mutation resumed undisturbed.

Architecture is all about surfaces, there is no difference between the peel and the core. The paneling protects, contains and – primarily – exercises a symbolic function.
The casing thought to be scratch-resistant now resembles a magic notebook, the metaphor with which Freud developed the instance of the Ego. On this crumbly curtain wall, the Glasarchitektur becomes related to the temporary intimacy of the curtains that we find in hotel rooms. Hedi Slimane dedicated a book to it with photographs of the rooms of Chateau Marmont and other mandatory stops for any world traveler worthy of the title.
In the temple of chic as in the worker’s church, in the temporary intimacy as in the eternal house, a desperate attempt remains to transfer evanescent memory to the solidity of the things surrounding us.
In 1957, while work progressed feverishly at the site in Baranzate, Yves Klein was showing eleven of his monochrome works in Milan at the Apollinaire Gallery. Not many people know, but that same year the French genius had begun to design buildings and entire cities, drawing inspiration from ancient Islamic palaces. If we think about it, the décor that we find in Baranzate today is the updated version of the stuccoes of the Alhambra in Grenada, a distorted mold, grown in a digital morphing obeying the logic of the pixel. Klein was a master of martial arts and knew well that in judo adversaries are considered collaborators. If holistic thinking was at the basis of his work, the same can be said for the skin of Baranzate.
Klein’s architectural work is not very well-known. As for Francesco Lo Savio and Piero Manzoni, architecture was the logical landing place for mature spatial research. During that period Klein worked in close contact with Claude Parent and Werner Ruhnau, planning the dematerialization of the architectonic gesture, dreaming of air architecture, a revolution that would evaporate the world’s physical infrastructure. He imagined that entire continents could become enormous spaces in a common living room: all that would then need to be done would be to create a temperate climate so that humanity would no longer even need clothes.
This was nothing less than a return to nature. Man finally at peace with the world no longer needs houses, living in a “Cool Planet” in which he no longer needs to be different. Like in our Glass Church, the margins between architecture and the landscape are corroded here. On the one hand, this approach to architecture concerns the macroscopic scale, that of the environment, and on the other, the microscopic scale, that of human metabolism, abolishing an entire array of binary relations, such as the distinction between interior and exterior, or between public and private.
Rebooting architecture: Yves Klein, imitating Baron Munchhausen, rebooted architecture, driving it to rise up in the air pulling itself by its own hair. Klein was an artist and therefore little concerned with the building aspect. He didn’t think of the envelope but of its contents: the void. Air architecture was not a catalogue of shapes, but of expedients to modify or adapt the climate to human needs. Raising the temperature when it is cold, the intensity of the light when it is dark, dreaming up new technologies to impose new ecological standards. Normally, the architect organizes a plan to contain the functions that a space is set up to handle and only then does he introduce an appropriate ventilation system. Air architecture inverted this standard practice: form, function and technology would no longer be organized in accordance with functions, but to meet ventilation requirements.
Work on temperature and climate change are only a few of the ways to enable people to live beyond the idea of nature, in a return to life in the Garden of Eden. In this utopistic habitat, like in Baranzate, people would be in direct contact with the earth and the elements; privacy would no longer be important or even possible since everyone would share the same light and the same open space, without partitions, touching the same invisible air and occupying bathrooms, kitchens, stores or places of worship.
Architecture for Klein was a pipeline, a stage, a door to an ambitious holistic project. The principle of privacy that structures our life on earth has disappeared in this city immersed in light, completely open to the outside.
If the city is made of air, a new atmosphere of collective intimacy prevails and its inhabitants live in the nude. The patriarchal structure of the primitive family no longer exists, replaced by a free community, individualistic but impersonal. Klein wrote in that period: humanity will immerse itself in raw material, the sensitivity of space will impregnate its sensitivity, conditioned by space. A new human vehicle, a new immaterial potential of our body will be discovered. The new aristocracy will therefore be composed of human beings with a strong and pure sensitivity, capable of dissolving into infinity and live in a “molecular interval”, from The Teachings of Don Juan, the book in which Carlos Castaneda described how eating peyote, monitored by a witch doctor, had led him to have an extracorporeal experience.
All in all, following to the end the homology between house and body, Yves Klein the Rosicrucian, in the footsteps of the shaman Castaneda, was learning to perceive energy as it flows directly in the universe. The perception of the dark sea of awareness is the culminating point of each Shamanism. Castaneda experimented with the potential through with human beings can transcend all that is known to them. The research of the shaman therefore is the aspiration to reach a level of pure energy so as to become an inorganic being.
If every journey is a cognitive revolt, this time the tension pushes towards total freedom. Angelo Mangiarotti was definitely not a shaman, but a good middle-class man from Lombardy. He produced his major architectural successes near the center of Milan. The radical projects are definitely not the core of his creative energy, and perhaps that is why he succeeded in freeing himself from the conventions in the suburbs.
But let’s go back to Klein for a moment, to the master of judo. His thinking was influenced by Zen concepts: what he followed and described as the void was a seraphic nirvana without worldly influences, an area where attention was only directed to sensitivity and to reality.
Spiritual void, but no less mundane for it, on the contrary. It could be the result of a public ceremony, like a happening expanding over time, over decades. His public could have simultaneously heard and understood his ideas, dissolved in a new spatial sensitivity. His mission was to cultivate the void. That was why his work on climate was at the top of his agenda. Walls of fire were planned for the harsher climates in the north, while walls of water were envisaged for the south; mobile air shells would have provided protection against rain: all applications of a complex design, envisaged on planetary scale. Klein was an honorary member of the club of visionaries, he dreamt of building an air-conditioning system for the surface of the globe. His greatest ambition was to build a complicated system of turbines and wind galleries capable of enveloping the entire world in a sort of atmospheric envelope, to give the sphere we live on an invisible roof. A European Buckminster Fuller, but without the geodetic dome, whose challenge was to build an immaterial grid that would never have become architecture. Between 1959 and the year of his premature death, Klein produced numerous projects and he informed everyone that was powerful enough and sufficiently idealistic to embrace his cause.
His plans travelled with the postal services of half the globe and even arrived on the desk of Fidel Castro.
Complementing the courage, honesty and audacity of the lider maximo, Klein hoped that there would be fertile terrain available in Cuba to try out his utopia.
Castro never replied and Klein’s unachieved Eden was forgotten.

In all honesty, I must confess to you that what immediately bewitches me about Mater Misericordiae is its appearance: a polystyrene skin contained in a polycarbonate sandwich that, like the creased face of a ship captain, bears the signs of all the springs and all the winters that he has seen go by. The polystyrene contained in that transparent shirt crumbled, broke and pulverized thanks to the cold winter and summer light. Many famous photographers have come to immortalize it.
More than a church or industrial plant, the church of Baranzate seems like a greenhouse too hot in summer and too cold in winter. An inhospitable thermal machine that, in the place of plants, seems to be designed to grow sun-dried crystals, children of a vertical salt lake. A dehydrated aquarium. An inanimate factory.
The world is a space to cultivate with an innate organicity. In spite of its undeniable beauty, it is not a form to contemplate, but an organism to be studied with which to measure oneself. Baranzate reminds us that nothing in the world we live is forced and established, but is always and only the result of natural growth and germination. In the mutation of the elements lies real beauty, the one that doesn’t need adjectives but comes from the observation of the energies that unfurl, live and cross us every day.
Those panels are ploughs that cultivate obsolescence, fields ploughed by time, subjected to a force they cannot handle, the solidification of their failure. Man’s greatness always accompanies the precariousness of his actions. The world that we know is the result of the sum of our efforts; sometimes the unsuccessful ones give us unpredictable objectives. A part of our history, including many of the important objectives that man has achieved, determined by incidents and involuntarily florid failures.
One day, Alexander Fleming accidentally left the Petri dishes he was working on uncovered near an open window while he was working on an experiment with bacterial cultures. His experiment was contaminated through the open windows. Furious, he was about to throw away the dishes when he noted some strange areas inside the capsules where bacterial cultures weren’t able to grow. The mold that had grown there was an antibiotic and prevented the bacteria from proliferating. His research on what had happened led him to the discovery of penicillin. It doesn’t matter if things happen by chance, luck has nothing to do with it: what counts is the predisposition to observe everything that happens and read the events for what they really give. The awareness of what you are looking for counts, which will lead you all the way until you find it. It is essential to be open to change of any kind.
Now all we need to do is see what the polystyrene at Baranzate has to tell us. Since ancient times mankind has strived to interpret the world; art per se began with the power of divination. We have begun to read the spots of the world and pass on to coffee grounds and it wouldn’t be strange at all to start looking at these polystyrene arabesques in the same way, the result of automatic writing, no longer with a surrealist imprint but post-industrial.
Pliny the Elder said that he read the face of Apollo trapped in the features of agate: in his wake, men of letters and the court have always vied to wheedle the secret of the images created by the surface of the world. Roger Caillois from whom I took many ideas and Jurgis Baltrušaitis, who lies hidden in many of these pages, would be happy with this digression, as anyone else who is an enthusiastic collector of precious stones or formal aberrations.
It is curiosity that pushes us to interpret the world that we see outside, it designs it like mothers who imprint their unsatisfied desires when pregnant onto their unborn babies. That is how we discover the profile of the divinities or favorite singer in the spots of humidity in a subway underpass, unhesitatingly ceding to our insatiable hunger for images.
That’s how it was during the era of curiosity shops that contained strange things found and built: what you can’t have, but what you want to believe, you create. An act of true, deep faith is not afraid of creating a thing it wants to obey in a hysterical short circuit.
According to an adagio of Carl Andre art is what we do, while culture is all the practices that we submit to: with him I invite you to do, always, to be able to see.
In this shattered polystyrene you don’t see, please watch the flow of time. The landscape of shattered polystyrene is an obvious stage scene. It is inevitable to compare it with the mysterious, slow procedures of geology.
The Glass Church is the temple that sacrifices vanity and celebrates the violent precariousness of the human condition.
The fantastic intuition, ingenious in its own way, of Angelo Mangiarotti and Bruno Morassutti to drop an industrial church in the middle of industrious Lombardy replaces the glitz with the force of radical choices.
However, anti-conformism does not always pay. Several decades later the church shows signs of its limits. Not so much for its construction but in imagination. It is no surprise that churchgoers in the area prefer to take their car and go to another parish to feel accepted in their faith, in a building that better meets their expectations. The churchgoer who takes that decision shouldn’t be criticized; it is a question of narrative. The funny thing, fairly paradoxical, is that the church that the faithful consider a squalid and “cold” prefab, is enthusiastically accepted by those fond of contemporary architecture, for whom it has become a veritable cult object.

The client expected something inert and found a live machine in his hands, which as such must be followed, assisted when in need of care, monitored. Everything seems designed with ill-will to rattle those who actually live in the place. Even the bell tower on the right side of the church meets the same requirements. It is an iron spiral that rises inside a frame of overlapping cubes, the last of which contains the bells. A simple metal cage without covering of any kind. Everything is open to view, nude and at the mercy of rain and wind, perfect for rust that grows heartily.
Who and how to tackle the aging of the church in Baranzate?
The Glass Church was listed as an artistic heritage site in 2002. Any change must be authorized by the Arts Superintendent in order to maintain its authenticity and respect for the project’s original spirit. But what was the original spirit? Did it contain and envisage the slow disintegration of its materials? There is no doubt that the restoration project for the church will be long and costly; it must take into account the line of thought with which the building was designed, including the material and chromatic aspects. A very costly mandala to be restored: in order not to damage its fragile design, millions of euros are needed. Who can decide when and how to replace the damaged polystyrene and who can select the material with which to replace it? The owner? Or who has the copyright? Does architecture that is bound to the Directorate of Cultural Assets become a work of art and should it be restored as if it were a work of art? In addition, if polystyrene made in 1950 should no longer be available, or be too fragile, who is responsible for deciding on its replacement?
Klein not only seems to have anticipated these issues, he also seems to have resolved the deadlock that sounds regressive, binding for the artist and for the owner of his work. The question is not centered on the way the institution should manage this problem, this performance and this idea over the coming years. The real question is if we have the ambition to change the characteristics and structure of our ideas regarding the preservation of what is short-lived and transitory. What is the way in which the times we live in manage the nature of the transition, whether symbolic or real, of the aging objects, projects and knowledge?
Do we wish to live in a museum that preserves the world under a glass case or pass along the stories that made their times? One of Klein’s legacies could be the recognition that not everything can or must be preserved or told through exhibitions, it is not true that every work of art is intended for a museum.
We live in times obsessed with memory, with restoration and the preservation of remains.
The celebration of the ephemeral that fascinates post-postmodern man so much is contradictory and controversial.
Klein manages it his own way, brilliantly as always. He died shortly after declaring that he would only produce immaterial works, on 6 June1962. It is as if on that very day he had decided to transform himself in the immaterial, atomizing himself: from 12:59 on that day he will forever be present in absence.
We wonder if Klein and Mangiarotti with him were attracted by rituals and by the theatre rooted in it, more than by systems of religious beliefs. In French spirituel that in Italian becomes “spirituale” (spiritual in English), may mean either mystical involvement or something amusing, (“spiritoso”).
Who know if Mangiarotti knew French …