Questo è un invito formale a guardare il nostro agire, e intendo quello di noi tutti, come quello di un chimico, pensando al chimico come alla versione più strenua del mestiere di vivere.
Il chimico è colui il quale conosce attraverso le proprie mani, con il naso e con tutti i sensi, che come ogni ingenuo realista, sa di essere parte dalla materia che tocca, e sa che per capirla, e per capirsi, deve lavorarla, rettificarla, smerigliarla, e toglierle le sbavature. Il chimico sa che la materia è madre, anche etimologicamente, ma che è anche nemica.
La materia è anche una scuola, la vera scuola: modificarla significa costruire un ambiente, il proprio ambiente, e con esso una parte di sé.
Ogni opera d’arte non è un procedimento descrittivo ma un atto di fondazione, questo il chimico forse non lo sa, ma è la sua condotta a insegnarcelo, a ribadirci che ogni spazio è uno spazio da farsi. Siamo degli inconsapevoli chimici Costruttivisti, prima del 1913, nel 1913, e anche oggi, quasi un secolo dopo Gabo e Tatlin.
A me lo ricordavano, da piccolo, MacGyver e l’ A-Team, quando le loro trasformazioni e i loro giochi di materiali mi tenevano incollato allo schermo del televisone, e me lo ha ricordato ora che sono cresciuto, e la tv la guardo poco, Francis Fukuyama, sul suo blog.
Fukuyama è un importante teorico americano, colui secondo cui la storia dell’umanità consta in un unico processo di evoluzione che è terminato alla fine del XX secolo, raggiungendo una dolce stagnazione dove le tensioni ideologiche e le nostre insicurezze endemiche sono collassate, e noi umanità tutta, sempre secondo Fukuyama, abbiamo tirato un poco il fiato.
Quest’anno, anni dopo averci raccontato la fine della Storia, e ‘inizio di un presente finalmente risolto, Francis si è costruito con le sue mani un drone, uno di quegli apparecchi automatizzati che usano gli eserciti e gli insicuri per monitorare il mondo che incute timore, mandando delle macchine a correre i rischi al posto loro.
Questo che vedete nella foto qui sotto è il suo drone, sul tavolo su cui è stato costruito.
Si, lo so, non c’è nulla di strano in un rinomato docente di Stanford che passa il suo tempo libero ad assemblare un aeromobile a controllo remoto, men che meno se la stessa persona è conosciuta per aver sostenuto in più occasioni la sua fiducia nella scienza e della tecnica.
Quello che mi interessa è il drone. Quello che avete visto nella foto.
Sono consapevole che quanto leggete può benissimo passare per una piccola paranoia postprandiale, ma non posso non pensare che se chi ha ottenuto la propria notorietà proclamando l’avvenuta omogeneizzazione e pacificazione delle società umane deve controllare il proprio giardino con un robot volante, ecco, qualcosa non mi torna.
Certo, lo sappiamo bene che la storia si è sempre rivelata refrattaria ad ogni chiusura, ma questo mostra che nemmeno Francis ora ci crede più tanto.
Quello che il piccolo drone ribadisce è che non può esistere nessuna fine della storia senza la fine dell’uomo. Questo è risaputo, certo, ma non è mica cosa da poco.
Fa di ogni chimico un sisifo stacanovista, lo immerge in un loop senza fine.
Il drone, nel suo oscuro scrutare, ribadisce che iproblemi, le cose da risolvere, sono sempre tra noi, che c’è le portiamo appresso nel nostro spazio, che noi, con loro, proprio tramite loro, lo spazio lo contaminiamo e lo definiamo.
Il drone è l’interposta persona che controlla la scacchiera, lo strumento di monitoraggio che vede noi e le nostre coreografie. Siamo gli abitanti di un luogo di scambio che il drone, dall’alto, oggettivizza, contestualizzando tutto ciò che i suoi strumenti registrano, inscrivendolo in un Paesaggio.
Il drone è un paesaggista, un pittore en plein air del XXI secolo.
Il paesaggio è il contesto, lo sfondo, la scena, e in quanto tale relativizza le cose, le persone, e le tensioni che intercorrono tra di loro; una volta viste da lassù dove vola il drone, o stampate su di in una cartolina, tutte le cose contano solo come parte di un insieme.
Il paesaggio è la dove il significante e il significato coincidono, la dove forma e contenuto convolano a nozze.
Anche Flogisto, la cosa che da il titolo a questo testo, è un paesaggio, fatto di immagini in movimento e suoni. È un giardino elettrico il cui spettatore ideale è un chimico, se per chimico intendiamo, lo ribadisco, chi non si tira indietro davanti alla materia, e la vive in pieno con i propri sensi.
Flogisto è una partitura somatica, che vive delle pulsazione che lo spettatore gli regala, attraversandolo. Flogisto ha anche lui bisogno, come il giardino di Fukuyama a Palo Alto, di essere registrato, oggettivizzato, raccontato, solo che al posto di un drone fatto in casa, impiega uno scanner smontato e ricostruito nello studio di un artista, il mio.
Flogisto è il tentativo di esplorare la possibilità e la vitalità della scultura, intesa come una serie di indicazioni per uno spazio pensato, o, se volete, per pensare uno spazio.
Provocare una serie di passaggi di stato, e di raccontare i loro sviluppi.
Nel raccontare le loro metamorfosi, però, è necessario farlo solo con modi ad esse omologhe, non solo seguendo i flussi e i mutamenti, ma cambiando anche noi con loro, adottando il loro stesso codice cangiante. È una trasposizione, progettata tenendo a mente le foto delle proprie sculture fatte da Medardo Rosso e Brancusi, è una trasduzione senza fine di forme e identità.
Quello cha avviene è presto detto: degli strani paesaggi prendono vita sopra il vetro di uno scanner, destinati poi a dissolversi, a prendere fuoco, a modificarsi, a vivere, e a morire.
Flogisto è una macchina misteriosa pensata per la cattura delle tre dimensioni, è Locus solus ricostruito sullo spazio planare di uno scanner, che registra la vitalità delle cose, e al contempo le congelata in un’immagine statica. Il tempo collassa sulle due dimensioni. I microcosmi si stabilizzano in un ordine arbitrario e casuale, e i materiali di cui sono composti si ritrovano stampati, fissati, come su di uno strano vetrino da laboratorio.
Lo scanner prende il posto del microscopio, e con noi guarda le cose e le schiaccia come fa il vetro di un acquario. Registra e insegue gli eventi, capricciosi ed irrequieti. Flogisto non è una macchinazione negromantica, ne tantomento un’apparizione magica, ma è come guardare una natura morta mentre muore, o fare compagnia alla telecamera di Lynch all’inizio di Velluto Blu, mentre nella sua discesa tre i fili d’erba scopre gli ovvi segreti di un giardino qualsiasi.
Quello di cui vi parlo è il tentativo di far ballare le cose, e noi con loro, perchè solo quando tutto balla all’unisono, ecco che tutto si fonde in una sola cosa.
È una reazione chimica senza fine, sviluppata ascoltando le leggi di natura, celebrando nuove versioni della materia, dove i reagenti si trasformano in anfibi, in reti, in luoghi di mediazione e traduzione.
Flogisto, come in un libro, tempo fa, invita a pensare la malattia come metafora.
Si tratta di vibrazioni, di scosse, rumore, non di realtà che si compenetrano o di sguardi che si ibridano, ma realtà che si creano. Un percussionista è un sensitivo che tocca e fa vibrare le cose, le anima, da loro un’anima. Non è solo un gioco di parole.
Creare realtà.
ed errori.
Come il Flogisto.
Che è una teorica chimica, e un grande errore, del XVII sec.
Secondo le teoria di G.E. Stahl esisteva un ipotetico principio di infiammabilità costituente dei corpi combustibili, il Flogisto – appunto – che permetteva l’ossidazione o la combustione dei corpi. Flogisto è quindi avversario alla legge della conservazione della massa, è il fluido della trasformazione, della metamorfosi, del divenire.
È un errore utile, che caratterizza un’intera epoca dell’evoluzione della chimica, ma è anche un monito: non ci dice tanto com’è il mondo, ma ci racconta come lo vogliamo, o abbiamo voluto, vederlo.
Ci parla dei nostri desideri.
Tutto quanto avete letto fino ad ora è un saggio bislacco di chimica applicata, di certo non in modo ortodosso; avremmo potuto sostituire da molte righe alla parola chimico la parola scultore, così come ora vi chiedo di sostituirla con scrittore, mettendo sul piatto un’ altra esperienza importante per queste note: la scrittura parallela di Giorgio Manganelli.
Girogio Manganelli ha scritto un libro su Pinocchio con una scrittura che, segue idealmente, pagina per pagina, ogni singola pagina della favola originale, ricalcandola e deformandola, come se ne fose un isotopo. Manganelli stesso dice di avere assolto al « compito deliziosamente servile di trascrivere, decifrare, disenigmatizzare». Ridurre tutto a molecole da ricomporre, verrebbe da dire. Il suo Pinocchio Parallelo usa il materiale di Collodi per creare qualcosa di imprevedibile, in un gioco incessante di metamorfosi, in una reazione chimica sviluppata su carta. Sotto l’effetto della penna di Manganelli, l’umile storia di collodi internazionalizzata da Walt Disney si trasforma in un’architettura barocca, piena di saloni, di scale, di corridoi, di labirinti e di tranelli. Manganelli ci conferma che scrivere è riscrivere. Che nulla si crea e nulla si distrugge, ma che che ma tu7to 5i trafs0rma .Ogni gesto è la prosecuzione della continua metamorfosi in corso; non esiste un inizio propriamente detto, solo un’imissione di energia nel processo. Non iniziamo nemmeno quando ne siamo convinti, al massimo saliamo sulle spalle altrui per tentare degli esercizi funambolici, rivelando una grazia lieve e deliziosa.
A pensarci bene, non credo sia un caso che sia proprio Pinocchio la guida scelta per accompagnarci tra il farsi e il disfarsi della materia, perchè Pinocchio, nella sua vita intensa, è colui il quale passa dallo stato vegetale, all’animale per giungere fino all’umano.
Chi crede nel Flogisto crede anche in Pinocchio, nelle cui vene, sono certo, scorre in quantità. Pinocchio è fatto di legno, e il legno, lo sappiamo, è materia che richiama la distruzione e la cenere, che vuole diventare altro, il cui fine è trasformarsi. Pinocchio è quindi il chimico per eccellenza, uno spettatore provetto, un prometeo pasticcione,
una figura proteiforme, in perenne tentazione. Pinocchio sa che agiamo in un campo di forze che prima modifichiamo, e da cui siamo inevitabilmente, a nostra volta, modificati; lo sa perchè lo registra sulla propria pelle. Pinocchio crede nella pluralità dei discorsi e dei valori, ma soprattutto nel loro dialogo, e non spette di seguire la continua traduzione degli uni negli altri. L’indeterminatezza del mondo materiale, e la nostra esperienza delle cose, ci spinge lontano da ogni tipo di fissità, di chiusure del cerchio. Per il chimico, per Giorgio, per il suo Pinocchio, per uno scultore, e spero, ora, anche per voi lettori, non esiste un lavoro ma esiste un lavorio, un brusio che ci accompagna mentre guardiamo il mondo, che lo smonta e lo rimonta, persistente ed ipnotico.
L’indeterminatezza del mondo materiale, e la nostra esperienza delle cose, ci spinge lontano da ogni tipo di fissità, di chiusure del cerchio. Per il chimico, e per uno scultore, non esiste un lavoro ma esiste un lavorio, un brusio che ci accompagna mentre guardiamo il mondo, che lo smonta e lo rimonta, persistente ed ipnotico.
Quello che conta è il tentativo di far ballare le cose, e noi con loro, perchè solo quando tutto balla all’unisono, ecco che tutto si fonde in una sola cosa.
È una reazione chimica senza fine, sviluppata ascoltando le leggi di natura, celebrando nuove versioni della materia, dove i reagenti si trasformano in anfibi, in reti, in luoghi di mediazione e traduzione.
Flogisto, come in un libro, tempo fa, invita a pensare la malattia come metafora.
Si tratta di vibrazioni, di scosse, rumore, non di realtà che si compenetrano o di sguardi che si ibridano, ma realtà che si creano. Un percussionista è un sensitivo che tocca e fa vibrare le cose, le anima, da loro un’anima. Non è solo un gioco di parole.
This is a formal invitation to look at our actions, I mean those of us all, like those of a chemist, thinking at the chemist like the most courageous example of the trade of living.
The chemist experience the world through his own hands, through his nose and all senses. Like every naive realist, he is aware of being part of the matter he touches and he knows that, to understand it, he should work it, rectify it, sand it and remove slobbers. The chemist knows that matter is mother, even etymologically, but that it can be harmful.
Matter is also a school, the actual school: modifying it means to build an environment, one’s own environment, and at the same time part of oneself.
Any artwork is not a descriptive process, but an act of foundation. Although perhaps the chemist does not know it, it is his attitude that teaches us about that and reasserts that every space is a space to be. We are some kind of unaware Constructivist chemists, before 1913, in 1913, and even today, nearly a century after Gabo and Tatlin.
When I was a child, MacGyver and A-Team reminded me about that, at the time when their transformations and their plays kept me glued to the TV screen. Now that I am older, and I rarely watch TV, it is Francis Fukuyama, who reminds me about that it in his blog.
Fukuyama is an important American theoretician, who affirmed that the whole history of mankind is a single evolution process that finished at the end of 20th century, when any ideological tension and our endemic insecurities collapsed into a comfortable stagnation. According to Fukuyama, it was then that we, the entire mankind, took a little breath.
This year, some years after having told us about the end of History and the beginning of a present finally settled, Francis has built with his own hands a drone, one of those automatic apparatuses used by armies and insecure people for monitoring the scary world by sending out a machine that take risks in their the place.
What you see in the picture below is his drone, on the table on which it has been built.
Yes, I know, there is nothing strange about a famous Stanford scholar who spends his free time in assembling a remote control aircraft, even less if that person is known to have declared his confidence in science and technique in many occasions.
What I am interested in is the drone. The one you have seen in the photo.
I am aware that what you read can just seem like a little postprandial paranoia. But I cannot avoid thinking that, if the one, who has obtained his own notoriety by proclaiming the homogenization and pacification of the human societies, needs to control his garden with a flying robot, well, then there is something I just do not get about it.
Sure, we know that history has always been refractory to any ending, but what happened demonstrates that neither Francis believes it so much.
What the little drone confirms is that no end of history can exist without the end of man. Obviously this is well known, but it is no small matter.
That turns every chemist into a Stakhanovite Sysiphus, it dips him in an endless loop.
The drone, while scanning darkly, confirms that problems, issues to solve, are always with us; that we carry them by in our space; that we infect the space with them and, through them, we define it.
The drone is the intermediary, who controls the chessboard, the patrolling monitor that watches over us and our choreographies. We are the inhabitants of a trading place that the drone objectivizes from up above by locating everything that is recorded by the sensors to be inscribed in a Landscape.
The drone is a landscape painter, the 21st century landscape painter.
Landscape is the definition of the relationship between figures, background and scene.
It is not a passive context, but an active machinery that relativizes things, people and tensions by interacting with them. All those things that, once viewed from up above or printed on a postcard, count only as part of a whole.
Landscape is there where signifier and signified coincide, where form and content tie the knot.
Phlogiston too, the thing that titles this text, is a landscape, made of images in motion and sounds. It is an electric garden, the ideal spectator of which is a chemist, if by “chemist” we mean, once again, anybody who does not recede in front of the matter and experience it fully through his senses.
Phlogiston is a somatic score that lives in the pulsations given out as a present by the spectator who crosses it. Like Fukuyama’s garden in Palo Alto, Phlogiston needs to be recorded, objectivized and told. The only difference is that, instead of a homemade drone, Phlogiston uses a scanner disassembled and reconstructed inside an artist’s studio, mine.
Phlogiston is the attempt to explore the possibility and the vitality of sculpture, understood as a series of suggestions for a conceived space, or, if you like, for conceiving a space.
To provoke a series of phase transitions and to narrate their development.
To tell their metamorphoses in a homologous way, not merely following the flow and the change, but changing ourselves with them by adopting the same changing code. It is a transposition planned while thinking at the photos taken by Medardo Rosso and Brancusi to their sculptures, it is an endless transduction of forms and identity.
What happens is easily told: some odd landscapes come to life on the scanner glass to eventually dissolve, catch fire, modify themselves, live and die.
Phlogiston is a mysterious machine thought for capturing the three dimensions; it is a locus solus reconstructed on the shallow space of a scanner, that records the vitality of things and, at the same time, freezes them within a still image. Time collapses into two-dimensional space. Microcosms become stable in an arbitrary and accidental order, while the materials of which they are composed find themselves printed, fixed, put on a strange laboratory glass slide.
The scanner replaces the microscope and watches things together with us, it flattens things down like an aquarium glass does. It records and it tracks the events, as capricious and restless as they are. Phlogiston is not a necromantic maneuvering, neither a magical apparition. It is like watching a still life composition while it is dying, or moving along with Lynch’s camera in the opening scene of Blue Velvet, crawling down through the grass blades to discover the obvious secrets of no matter what garden.
What I am talking about is the attempt of making things dance, and us with them. Because just when everything dance together at the same pace, all can melt into one thing.
It is an endless chemical reaction, developed according to nature’s law, by celebrating new versions of the matter, where the reagents turn themselves into amphibians, networks, places of mediation and translation.
Phlogiston, like a famous book by Susan Sontag does, invites to conceive disease as a metaphor.
It is about vibrations, jolts, noise, no realities penetrating themselves or hybridizing glances, but realities in the making. A percussionist is a sensitive who touches the things and let them vibrate, he animates them, he fills them with spirit. It is not just a play on words.
To make up realities.
And errors.
Just like Phlogiston.
Which is a chemistry theory and a big mistake dating back to 17th century.
According to G.E. Stahl’s theory, it existed a hypothetical principle of fire, of which every combustible substance was in part composed. That was called exactly Phlogiston and allowed the oxidation or the combustion of the bodies. Phlogiston is therefore opposed to the law of mass conservation; it is the fluid of transformation, of metamorphosis, of becoming.
It is a useful mistake, that distinguishes an entire age of evolution of chemistry, but is also a memento: it does not tell us much on how the world is made, but does tell about how we want, or we had wanted, to see it.
It tells us about our desires.
What you have been reading so far is a weird applied chemistry essay, for sure not redacted in an orthodox sense. We could have replaced the word chemist with the word sculptor many lines above, just as easily as now I ask you to replace it with the word writer. By doing that, I put at stake another experience that is important for these notes: the parallel writing of Giorgio Manganelli.
Giorgio Manganelli had written a book on Pinocchio by ideally following, page after page, every single page of the original fairy tale, by tracing it and distorting it, as if it was an isotope. Manganelli himself claims to have fulfilled the “deliciously menial task of transcribing, deciphering, decrypting”, of breaking all down into molecules to be recomposed, I would say. His parallel Pinocchio uses Collodi’s material to make up something unpredicted through an incessant play of metamorphosis, a chemical reaction developed on paper. Under the effect of Manganelli’s pen, the humble novel by Collodi, made international by Walt Disney, is turned into a baroque architecture, full of halls, stairs, corridors, mazes and traps. Manganelli confirms that to write means to rewrite. That nothing is created and nothing is destroyed, everything is transformed. Every gesture is the persecution of a continuous metamorphosis on process; actually there is no starting point, but just an introduction of energy in the process. We are not beginning anything neither when we think we do. We hop on someone else’s shoulder at most to attempt funambulatory exercises by revealing a light and delicious grace.
Thinking it over, it is not by chance that Pinocchio himself was chosen as a guide to accompanying us through the making and the unmaking of the matter, because Pinocchio, in his intense life, is the one who passes from the vegetal state to the animal one in order to reach the human.
Those who believe in Phlogiston, they believe also in Pinocchio, in whose veins, that one certainly flows abundantly. Pinocchio is made from wood. We know that wood is a material that recalls destruction and ash, it is eager to become something else, its aim is to be transformed. Pinocchio is therefore the arch-chemist, the perfect viewer, a clumsy Prometheus, a proteiform character that is continuously exposed to temptation. Pinocchio knows that we act in a force field that we modify and by which we ourselves are modified; we know this from our first hand experience. Pinocchio believes in the variety of discourse and values, but most of all in their dialogue, and he does not stop following their continuous mutual translation. The indeterminateness of material world, and our experience of things, pushes us far away from any kind of fixity, from any closed circle. As for the chemist, for Giorgio, for his Pinocchio, for a sculptor, and, I hope, now also for you readers, there is no work but an intense activity, a continuous humming that accompanies us while we are watching the world and that takes it apart and reassembles persistently and hypnotically.
English translation by M. Palazzi